mercoledì 10 dicembre 2008

Lo svantaggio socio-culturale a scuola

La condizione di svantaggio socio-culturale determina nei bambini forme di isolamento, aggressività e cambiamenti improvvisi di umore.
I soggetti che ne sono affetti presentano difficoltà a convivere con compagni e adulti e ad accettare le regole della convivenza.
Si tratta di soggetti che, sebbene posseggano normali potenzialità intellettive e siano esenti da handicaps fisici o da alterazioni psicopatologiche, presentano difficoltà, a volte marcate, di inserimento e di apprendimento scolastico.
I fattori che determinano la condizione di svantaggio sono molteplici: famiglie troppo numerose, situazioni di sovraffollamento, rottura di nuclei familiari, assenza di una delle figure adulte di riferimento, frequente ospedalizzazione di un membro della famiglia, scarsa o errata alimentazione, stato di povertà economica, ecc.
Le caratteristiche fondamentali dello svantaggio, determinate, dunque, dall'origine sociale dello svantaggiato e dall'impossibilità legata a tale origine di conseguire risultati scolastici soddisfacenti, limitano nel futuro le opportunità di conseguire altri diversi risultati.
Esistono realtà scolastiche nelle quali il numero dei bambini che vivono una simile situazione è elevato, e in cui spesso, proprio per questo motivo, il lavoro di prevenzione e di contenimento del disagio ha una storia più antica e maggiormente visibile.
Cause di tipo prevalentemente sociali e culturali influiscono sul processo di interiorizzazione della cultura, e sono alla base di carenze nella capacità linguistica, così come nelle motivazioni allo studio, provocando, spesso, fattori psicologici secondari che aggravano il quadro della situazione (frustrazione, sensi di colpa, autosvalutazione).
Accade spesso che una forma di svantaggio socio-culturale, presente già al momento dell'ingresso dei bambini a scuola, sia causa di difficoltà e che le disuguaglianze tendano spontaneamente ad aumentare nel corso degli anni scolastici.
In tale ambito la ricerca pedagogica, nel corso degli anni, si è ampiamente interrogata sul ruolo e sull’identità della scuola e delle varie agenzie educative.
La scuola tradizionale, a differenza di quella di oggi, si è sempre ostinata ad ottenere dai suoi allievi risultati e atteggiamenti non assolutamente collegati ai loro veri bisogni.
In quest’ottica gli sforzi degli alunni (enormi in riferimento ai soggetti svantaggiati), non essendo regolati dalla legge del bisogno, hanno obbligato la scuola e gli insegnanti a ricorrere ad una serie di mezzi punitivi senza ottenere risultati positivi ai fini di un apprendimento di qualità.
Ben presto, il movimento pedagogico dell’attivismo, sorto alla fine del XIX secolo, fece constatare che la scuola può essere intesa solo in funzione dello sviluppo del soggetto che si educa o in funzione della sua socializzazione, con non poche contestazioni intorno alle teorie dell'istruzione adottate o all'ambizione di essere scuola di cultura.
Secondo il metodo dell’attivismo la scuola deve, quindi, promuovere l’attività spontanea dell’alunno, attraverso i suoi interessi, i suoi bisogni e le sue tendenze.
Galileo Galilei in un suo aforisma, che ritengo spunto fondamentale su cui riflettere profondamente, affermava: “Non puoi insegnare niente ad un uomo. Puoi solo aiutarlo a scoprire ciò che ha dentro di sé…” ; ciascuno di noi, infatti, possiede innumerevoli risorse che sono, spesso, destinate a rimanere nascoste.
Affinché l’insegnamento a scuola possa essere considerato un processo formativo più che informativo che assecondi i bisogni e le tendenze del fanciullo, lasciandolo libero di pensare e agire, è necessario che l’importante compito dell’insegnante a scuola sia quello di riuscire a mettere in atto relazioni empatiche con gli alunni.
La scuola attiva è, dunque, quella scuola fondata “sul bisogno e sull’interesse derivante dal bisogno” (E. Claparède) in cui tutti gli alunni, compresi quelli in difficoltà, esplicano la loro attività liberamente e partecipano spontaneamente al loro processo formativo.

Valentina Caccamo

2 commenti:

  1. Complimenti per l'articolo. Come può la Legge Gelmini, aiutare i bambini della scuola primaria? Può una sola maestra sopperiere alle esigenze degli alunni? Perchè l'ordine dei pedagogisti non si è espressoal riguardo? Grazie e buone feste da Gioacchino

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  2. Gentile Gioacchino, grazie per i complimenti.
    Credo che con la Legge Gelmini i bambini della scuola primaria saranno fortemente penalizzati.
    Gli stili di vita oggi sono cambiati rispetto al passato, i genitori sono molto impegnati e non hanno abbastanza tempo per seguire i figli che trascorrono gran parte del tempo extrascolastico davanti al computer, alla televisione, alla play station e ai videogiochi in genere, favorendo così il sorgere di condizioni di isolamento e di emarginazione.
    Nella società odierna, in cui tanto si parla di pluralità dei saperi, di aiutare i bambini ad intrecciare relazioni positive con gli altri, l'insegnante unico di certo non sarà di aiuto al superamento delle numerose problematiche che spesso si presentano tra i banchi di scuola.
    Noi pedagogisti abbiamo lottato tanto contro l'approvazione della Legge Gelmini, ma credo che il supporto dei diretti interessati (le famiglie) sia venuto a mancare.
    Ringraziandola ancora per il suo commento, auguro Buone Feste anche a lei.
    Dott.ssa Valentina Caccamo

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